Da ieri, lunedì 3 novembre, parte una nuova stagione della NCAA Division I, il massimo campionato universitario di basket negli Stati Uniti. Ma questa volta la notizia non riguarda solo l’America: la riforma appena entrata in vigore cambierà per sempre gli equilibri del basket mondiale — e per l’Europa, non è affatto una buona notizia.
Università ricche, giocatori ancora più ricchi
Da questa stagione, le università americane potranno pagare direttamente i propri giocatori, con un tetto complessivo di 20,5 milioni di dollari (quasi 18 milioni di euro).
Una rivoluzione totale, se pensiamo che fino a pochi anni fa, per giocare in NCAA, non si guadagnava nulla.
Oggi, invece, i migliori studenti-atleti possono ricevere non solo borse di studio e sponsorizzazioni, ma stipendi veri e propri. In pratica, l’università è diventata un ambiente semi-professionistico, dove il confine tra dilettantismo e sport d’élite è ormai scomparso.
L’ America attrae i talenti europei
Per il basket europeo, è un problema serio.
Sempre più giovani promesse del Vecchio Continente scelgono di lasciare l’Europa per andare a giocare nei college americani.
I numeri parlano chiaro: nella stagione 2016-2017 i giocatori europei in NCAA erano 182; oggi, nella stagione 2024-2025, sono 343. Quasi il doppio.
E non si tratta di nomi qualunque.
Ci sono anche due giovani italiani molto promettenti, Achille Lonati (18 anni) e Dame Sarr (19 anni), quest’ultimo cresciuto nel Barcellona e ora in forza ai leggendari Duke Blue Devils.
Addio ai guadagni europei
Un tempo, i migliori talenti restavano almeno qualche anno in Europa, dove potevano diventare professionisti già a 16 anni e garantire alle squadre un ritorno economico.
Il caso più famoso?
Nel 2018 i Dallas Mavericks pagarono due milioni di euro al Real Madrid per liberare Luka Doncic, oggi stella dei Los Angeles Lakers.
Quel denaro fu reinvestito nel vivaio, permettendo al Real di crescere altri talenti.
Ma quando Sarr ha lasciato il Barcellona per andare in NCAA, la società catalana non ha guadagnato nulla.
E questo, per le società europee, è un campanello d’allarme.
Un sistema che cambia le regole del gioco
Per decenni, la NCAA ha sostenuto che i propri atleti fossero “studenti dilettanti”, vietando qualsiasi forma di compenso diretto. Ma dopo varie cause legali — legate soprattutto all’uso dei diritti d’immagine nei videogiochi e nelle campagne pubblicitarie — nel 2021 è stato introdotto il sistema NIL (Name, Image, Likeness).
Grazie a questa riforma, gli atleti universitari possono guadagnare da sponsorizzazioni, pubblicità e accordi commerciali.
Il passo successivo, ora, è ancora più radicale: le università potranno pagare direttamente i giocatori.
Nel football americano, dove girano miliardi di dollari, gli atleti più famosi guadagnano cifre da veri professionisti. Nel basket, un accordo NIL può facilmente superare le decine di migliaia di dollari all’anno.
Per molti giovani, restare in NCAA è diventato più conveniente che andare subito in NBA.
L’effetto domino sul basket europeo
Fino a poco tempo fa, il basket europeo poteva contare su una “finestra d’oro”: i giocatori migliori restavano abbastanza a lungo da alzare il livello dei campionati e garantire entrate alle società.
È anche per questo che il divario con la NBA si era ridotto: la Germania ha vinto gli ultimi Mondiali, e negli ultimi sei anni il titolo di MVP NBA è andato cinque volte a europei come Nikola Jokic e Giannis Antetokounmpo.
Ma con le nuove regole NCAA, questo equilibrio rischia di spezzarsi.
I giovani più forti preferiranno volare subito negli Stati Uniti, senza passare dai club europei.
Meno tempo in Europa significa meno esperienza per i campionati locali e, soprattutto, meno soldi per le società che li formano.
Conclusione: la fuga dei talenti è appena cominciata
La riforma NCAA è, in apparenza, una vittoria per i diritti degli atleti.
Ma dal punto di vista europeo, rappresenta un terremoto economico e sportivo.
Se prima i club potevano almeno “incassare” parte del talento che perdevano, ora rischiano di vederlo volare via a costo zero.
Il risultato?
Un’America universitaria sempre più ricca e competitiva.
E un’Europa che, ancora una volta, rischia di perdere il controllo sul proprio futuro sportivo.

